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LA CLASSE OPERAIA DI MARCINELLE 
NON HA NAZIONE
COME I CAPORALI DE GASPERI E IL VATICANO ISTITUIRONO LA PRIMA TRATTA DI SCHIAVI PER LA RICONVERSIONE POSTBELLICA

Il messaggio elusivo inviato dal presidente della Repubblica Mattarella in occasione del 60° anniversario della tragedia di Marcinelle è riassuntivo di tutti i belati rievocativi degli altri politici italiani: «Sessanta anni fa, egli afferma, l’8 agosto del 1956, lavoratori di dodici diverse nazionalità, tra cui 136 italiani, persero la vita nelle profondità della terra al Bois du Cazier. La tragedia costituì uno dei più sanguinosi incidenti sul lavoro della storia italiana ed europea. Una tragedia assurta a simbolo delle sofferenze, del coraggio e dell’abnegazione dei nostri concittadini che lottavano – attraverso il duro lavoro – per risollevare se stessi e le loro famiglie dalla devastazione del secondo conflitto mondiale». Giorgia Meloni è stata ancora più originale: «Marcinelle rappresenta un luogo altamente simbolico per la memoria dell’Italia che ci fa riflettere su valori assoluti e irrinunciabili come la nostra identità nazionale».
Mattarella, la Meloni e consorti ci consentano di ricordare loro che i morti operai, limitatamente al disastro del Bois du Cazier di Marcinelle citati, omettendo gli «altri» non italiani, furono 262, quasi il doppio. Lo ricordiamo per un semplice principio, che la classe operaia non ha nazione, come dimostra proprio Marcinelle. L’altra metà si divideva infatti in altre 11 nazionalità, 95 belgi, 8 polacchi, 6 francesi, 6 greci, 5 tedeschi, 2 ungheresi, 1 inglese, 1 olandese, 1 russo e 1 ucraino. Dall’8 al 23 agosto durarono i tentativi di salvataggio. Il 23 agosto la conclusione: i restanti erano «tutti morti» per le esalazioni del gas! Si è messo a suo tempo sotto accusa la mancanza di maschere antigas, ma di fatto il suo utilizzo non era possibile con il caldo eccessivo né con la posizione obbligata a cui i lavoratori erano forzati nelle parti più basse del fondo, per cui molti non avrebbero potuto usarla, preferendo il fazzoletto intorno alla bocca.
Né si può perdonare ai politici e politicanti nazionali di dare a bere al popolo ignorante che quello di Marcinelle fosse un tragico incidente casuale, imprevedibile, se tra il 1946 e il 1963 più di 800 lavoratori italiani erano già morti in una notevole quantità di tragedie analoghe, ossia a partire da dieci anni prima di Marcinelle e a seguire. L’11 maggio 1950 erano morti 40 lavoratori a Trazegnies, di cui 3 italiani. Il 21 settembre 1951 ancora 7 morti a Quaregnon: 1 belga e 6 italiani. A marzo 1952 entrarono in sciopero i minatori del Borinage e di Charleroi contro le condizioni di lavoro e la mancanza di misure di sicurezza. Tre mesi dopo, due incidenti presso il bacino di Charleroi in cui persero la vita10 minatori tra cui 6 italiani. Il 22 novembre, ancora 2 morti presso Nense. Alla fine dell’anno, su 40.604 lavoratori italiani impiegati ne risultavano deceduti ben 75, l’anno successivo si raggiunse la cifra di 99 morti. Solo dopo questa sequela di «incidenti» e relative proteste e sospensioni di partenze, si arrivò ad una Commissione d’Inchiesta che, dopo 15 mesi, non perveniva ad alcuna conclusione, tranne… un Libro Verde (1955) in cui si dimostrava come le autorità belghe non avevano permesso di controllare i sistemi di lavoro e di prevenzione degli infortuni. Solo dopo la conferenza della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), nel marzo 1957, si perviene ad alcune misure di sicurezza del lavoro nelle miniere, tra cui l’uso «obbligatorio» delle maschere antigas. Fu così che il 1° ottobre del 1959 il Tribunale di Charleroi mandò tutti assolti gli imputati della catastrofe. Alla fine del 1959, l’Italia firma con il Belgio un ennesimo protocollo di intesa con nuove garanzie, ma ormai l’industria estrattiva belga si indirizzava altrove per manodopera supposta più disponibile e meno pretenziosa. Nelle miniere già predominavano greci, turchi e marocchini.
Le celebrazioni dell’anniversario di questa, né prima né ultima, tragedia delle miniere di tutto il mondo, sono state un’ennesima fiera di luoghi comuni sul vanto retorico del lavoro italiano nel mondo, sul cliché dello spirito di sacrificio che i nostri connazionali porterebbero all’estero con la loro proverbiale (e …libera!) voglia di lavorare, a costo di qualunque privazione, per il riscatto dalla devastante rovina della guerra, allora visibile ancora nelle strade. Dal presidente della Repubblica Mattarella a quello del senato Grasso alla presidente della camera Boldrini al presidente del consiglio Renzi e ai vari politici e sindacalisti, si è palesato un distratto, unanime e scialbo coro di orgoglio nazionalista, tutti a concludere sui passi avanti fatti da allora in termini di sicurezza sul lavoro (che, oltre tutto, è un falso palese, stante l’aumento delle morti bianche e dei suicidi per lavoro e anche degli incidenti gravi sul genere della collisione dei due treni a binario unico tra Andria e Corato, senza contare anche qui i precedenti). Nessuno che abbia ricordato cosa ci fosse dietro quella tragedia: l’accordo così detto «braccia-carbone». Il 23 giugno 1946, Alcide De Gasperi ne firmò il protocollo d’intesa col Belgio, che incrementò ulteriormente l’emigrazione degli italiani in modo massiccio nelle miniere del colonialista re Baldovino. Infatti l’emigrazione italiana in Belgio era già un fatto fin dall’800 e già il 12 febbraio, prima del protocollo di giugno, si era avuto un primo «convoglio» da Milano, quando ancora si faceva credere agli italiani di essere assunti come muratori o manovali, non a lavorare nelle viscere della terra, né che sarebbero andati ad alloggiare nelle baracche dei prigionieri di guerra russi e tedeschi.
La storica belga, di origine italiana, Anne Morelli definisce questo genere di tratta, operata dal governo italiano in funzione, secondo noi, di caporalato, come una «deportazione» vera e propria : «il n’y a rien à fêter. Cette immigration, c’est un arrachement, un déchirement, c’est une obligation, une déportation. C’est un mot choquant, car on pense tout de suite à la déportation juive et aux camps d’extermination, mais au sens premier, déportation, ça veut dire vivre loin de chez soi. Pour tous ces gens qui, en 1946, prennent la route, à cause de la misère, et aussi d’une certaine forme d’oppression politique qui régnait en Belgique» . In questa forma piuttosto energica di reclutamento, la coercizione economica che induce quelli che decidono di partire per sfuggire alla miseria e alla disoccupazione a scendere nel sottosuolo con l’obbligo di rispettare la durata minima contrattuale di un anno, sotto pena addirittura della detenzione prima del rimpatrio, e il mancato rinnovo del passaporto oltre all’impossibilità di cambiare lavoro prima di aver trascorso in miniera almeno cinque anni, è resa palese con la detenzione come sanzione penale. Un contratto capestro di lavoro coatto, dunque, col quale tra i due governi usciti dalla guerra imperialista si assicurava un’intesa che considerava i lavoratori, già carne da macello in guerra, come obbligati a lavorare senza potersene liberamente andare via, come invece dovrebbe essere il lavoro salariato, libero rispetto alla schiavitù comunemente intesa, come privazione di libertà individuale. L’obbligo di rispettare la durata minima contrattuale di un anno, sotto pena addirittura della detenzione prima del rimpatrio, e il mancato rinnovo del passaporto oltre all’impossibilità di cambiare lavoro prima di aver trascorso in miniera almeno cinque anni, denotano tutti insieme un rapporto di schiavitù moderna con l’intermediazione del governo italiano.
Alla fine della seconda guerra mondiale, a sua volta, il Belgio, ricco da sempre di materie pri-me, pur avendo esaurito le scorte, dovette dimezzare la produzione del carbone, non certo per carenza di manodopera, che anzi c’era in sovrabbondanza, dato l’alto livello di disoccupazione per via della riconversione dalla produzione bellica a quella di pace, però gli operai belgi si rifiutavano di lavorare nelle miniere, lavoro pesante e mal retribuito, a cui fino a quel momento erano stati destinati e costretti a loro volta i prigionieri di guerra. Così, dei 137.000 minatori del 1940, ne restavano solo 88.000 nel 1945. Ciò indusse il governo belga a sottoscrivere, il 23 giugno 1946, col governo italiano di unità nazionale di Alcide de Gasperi, quel mai noto abbastanza protocollo d’intesa per la partenza di 50.000 lavoratori migranti con età non superiore a 35 anni, «a gruppi di 2.000 a settimana in cambio della fornitura annuale all’Italia di un quantitativo di carbone compreso tra i due o tre milioni di tonnellate, a prezzo preferenziale».
Nel 1946 decine di migliaia di italiani vennero assunti per lavorare nei cinque bacini carboniferi belgi (Borinage, Centre, Charleroi, Liège, Campine). Alla fine del 1947, nelle miniere lavoravano circa 30.000 italiani (con una presenza totale di oltre 84.000 italiani, quasi un quarto della popolazione straniera in Belgio), al termine dell’anno successivo essi risultavano 46.120. Alla fine del 1948 nelle miniere lavorano quasi 77mila cui si aggiunsero mogli e figli. Andando avanti, nel 1957, su 151.898 lavoratori nei bacini carboniferi belgi, 45.819 erano italiani. Tra il 1946 e il 1960 ben 230.000 italiani lavorarono nelle miniere belghe. Dal 1946 al 1956 il numero degli italiani morti nelle miniere e in altri incidenti di lavoro sono stati circa 650. Secondo i dati in possesso delle Acli, tra il 1946 e il 1963 i lavoratori italiani morti in miniera furono 868 . Ecco il senso dell’espressione «braccia-carbone»! Il numero complessivo degli arrivi dall’Italia era prevedibile che aumentasse perché arrivarono appunto anche le famiglie dei lavoratori, mogli, figli, genitori. L’accordo da un lato prometteva parità di salario e trattamento pensionistico e sanitario ai minatori italiani e belgi (i quali in molti, come si è detto, rifiutavano le medesime condizioni come disumane) nonché il diritto agli assegni familiari per le famiglie, che rimanevano in Italia, dall’altro il governo di Bruxelles si impegnava a fornire a quello italiano carbone a basso costo. Paolo Di Stefano, scrittore e giornalista del Corriere della Sera nel suo libro La catastròfa definisce quell’accordo un patto «scellerato», ma evidentemente nella nostra classe politica nessuno legge libri sulle condizioni di vita e di lavoro di chi s’ammazza per mantenerla, oggi come allora, quando nelle città e nei paesi comparvero manifesti rosa notificanti il «reclutamento», promettendo lavoro e salario, progresso e benessere per l’Italia .
Oggi come allora, nessuna parola sui diritti dei lavoratori e sulle condizioni di lavoro. Non si richiedeva alcuna preparazione, soltanto una buona salute e un’età massima di 35 anni. Nel protocollo c’erano flagranti menzogne, condivise da entrambi i governi contraenti: vi si accennava ad alloggi «convenienti», tacendo sul fatto che erano costituite da cantine, baracche di legno e lamiera, già ex campi di prigionia. Nelle cantine c’erano i dormitori comuni, mentre le famiglie dormivano nelle baracche. I servizi igienici, come bagni e fontane, erano in comune e all’aperto, anche nell’inverno, che in Belgio è notoriamente rigido. Ovviamente, in queste condizioni la produzione balzò avanti passando dalle 75.000 tonnellate del mese di maggio 1946 alle 97.000 tonnellate del novembre 1948. Il lavoro era molto duro, in tre turni di 8 ore nella giornata, a partire dalle 6,00, dalle 14,00 e dalle 22,00. Le pause pranzo erano di 20 minuti. La paga era corrisposta in due tranche, il 10 e il 25 del mese, e per lo più si lavorava a cottimo, ossia secondo la quantità di carbone estratto. All’inizio degli anni ’50, il salario medio oscillava tra 220 e 350 franchi al giorno. Col cottimo si andava anche oltre 400 franchi. Le ferie poi venivano calcolate sulla base dei giorni lavorati nell’anno precedente con un massimo di appena 6 giorni all’anno nel 1948 poi di 12 e infine di 30, con l’intervento sindacale e delle ACLI. Molto importante il fatto che «À côté de la filière officielle de migration italienne, les milieux patronaux ont organisé une filière parallèle, ‘la filière vaticane, qui recrutait dans les paroisses du nord-est de l’Italie des gens doux, gentils et fiables pour éviter d’avoir des subversifs. Ceux-là étaient les premiers à tenter de fuir l’Italie, et de trouver du travail parce qu’on leur refusait du travail en Italie étant donné leur implication dans des mouvements sociaux’». I sindacati belgi, da bravi servi dell’imperialismo, invece di lottare per la parificazione dei trattamenti salariali e normativi per locali e stranieri, tentarono di bloccare il flusso di ma-nodopera straniera a preferenza dei lavoratori nazionali che però rifiutarono le sollecitazioni in tal senso del governo, sicché nel 1951 questo autorizzò ancora altri contingenti di immigrati italiani, anche per rianimare il turn over con coloro che avevano maturato i cinque anni di lavoro obbligatorio, ottenendo il cosiddetto permesso di lavoro «A», che in teoria consentiva loro di spostarsi in altri settori come l’edilizia e l’industria, ma in pratica li costringeva a conti-nuare il lavoro nei bacini carboniferi per via che altri sbocchi lavorativi non esistevano. I minatori belgi del resto qualche privilegio riuscirono a mantenerlo, essendo in maggioranza tra i pochi a lavorare il carbone in superficie (lavaggio, separazione dai minerali di scarto e divisione nelle varie categorie di uso). L’attività principale si svolgeva a volte anche a oltre mille metri nel sottosuolo, con varie tecniche, dal martello perforatore pneumatico alle cariche esplosive, e con nastri trasportatori meccanici. Solo il telefono per comunicare. Naturalmente la questione delle misure di sicurezza non è mai un problema di optional per il capitalismo, dal momento che lavorando a cottimo si costringe il lavoratore a risparmiare sulle misure di sicurezza, per risparmiare tempo e usarlo tutto per la produttività, si evitava di «sprecare tempo» a puntellare, per poi vedere franare il terreno o mancare l’aria per mancanza di misure volte a distribuirla su grandi distanze, o produrre allagamenti o scoppi del grisou o appunto incendi come quello del Bois du Crazier.
Nessuno dei commemoranti odierni di quella tragedia del sottosuolo osa nominare i termini di quell’accordo, a maggior ragione ignora di svelare di che lacrime (e sangue!) esso trasudi, ad esempio l’obbligo di rispettare la durata minima contrattuale di un anno, sotto pena addirittura della detenzione prima del rimpatrio, e il mancato rinnovo del passaporto oltre all’impossibilità di cambiare lavoro prima di aver trascorso in miniera almeno cinque anni.
Né si fa alcun cenno alle note anche a quell’epoca così dette malattie professionali, come la silicosi non a caso definita come la «malattia del minatore», ma anche altre forme patologiche come l’enfisema, bronchite, tubercolosi, artrosi, senza contare i danni all’udito per i rumori dei perforatori e della dinamite e le febbri da sbalzi di temperatura.
Bibliografia (a cura di M. Strazza)
FRANCIOSI M. L. (a cura di), …per un sacco di carbone, Bruxelles, Ed. Acli Belgio, 1996
AUBERT R., L’immigration italienne en Belgique, Bruxelles, Istituto Italiano di Cultura, 1985
BERTI S., RENZI E., …e siamo dovuti andare sottoterra a lavorare…I sammarinesi nei bacini carboniferi del Belgio 1946-1960, Repubblica di San Marino, Centro Studi Permanente sulla emigrazione, Edizioni del Titano, 1999.
CAMERA DEI DEPUTATI, ATTI PARLAMENTARI, DISCUSSIONI, Seduta del 4 ottobre 1956, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1957
CAPUTO M., L’ultima giornata d’attesa fu la più straziante, in “Corriere della Sera”, 24 agosto 1956
MINISTERO AFFARI ESTERI, Marcinelle Cinquant’anni dopo, Sansepolcro (Ar), Graficonsul, 2006
ROSSINI D., L’altra Marcinelle dalle grandi tragedie sul lavoro alla lunga catena di vittime della silicosi, Liège, Ed. Patronato Acli Belgio, 2006.
RUBATTU A., La baracca, 50 anni di Acli in Belgio, Bruxelles, Editrice Acli Belgio, 2005
STRAZZA M., L’emigrazione lucana in Belgio negli anni Cinquanta, in AA.VV., Quando credevamo di poter rifare il mondo. Gli anni Cinquanta in Basilicata, Rionero (Pz), Calice Ed., 2007
 
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