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IL «DIRITTO DI EMIGRARE»: 
COME LA FORZA DEL DIRITTO È IL DIRITTO DELLA FORZA


Quando si entra nel campo dell’onnipotente sacralità inviolabile della legge, della sua natura e del fondamento del diritto, sembra quasi che i principi più elementari della legislazione, del costituzionalismo e delle istituzioni giuridiche in genere, sbandierati come eterni, sacri e immutabili, siano appannaggio universale, se non esclusivo, della tradizione liberale (termine immemore della sua ascendenza autoritaria e ghigliottinarda), nonché della democrazia moderna, a sua volta erede compiaciuta della tradizione liberale come di quella della polis greca più antica da Pisistrato a Pericle ateniese (a dispetto della schiavitù, componente integrante delle sue istituzioni). Modi e forme, questi, atti a magnificare la civiltà occidentale in quanto retta dalle leggi che, nella loro apparente universalità, sarebbero uguali per tutti, più delicate e paciose della restanti forme dispotiche, violente, brutali nella sottomissione dell’altrui volontà, o in preda alla legge della giungla, alla barbarie, ossia a quella condizione in cui ciò che si conquista o si ottiene lo si ottiene appunto con la forza bruta esercitata sulla comunità o semplicemente a detrimento di altri. Ma gli orpelli della civiltà, con i suoi codici civili e le sue leggi, non possono più oggi celare il lato diabolico di questa ostentata sacralità, il fatto che quelli che persino i lavoratori più sindacalizzati invocano come diritti costanti o come rispetto della dignità sono solo il risultato di lotte dure, senza esclusione di colpi, di uso della forza. Viceversa la forza della legge (ius, da iubeo= comando) non è che il risultato di un potere conseguito con coercizione, ricatto o con una violenza fisica originaria, spesso cinica, prepotente e cieca. L’essenza del potere in effetti resta ciò che è sempre stato in una comunità non più organica ma in una società frammentata in classi, consistente etimologicamente nell’essere a preferenza, ossia essere noi piuttosto che altri, e quindi l’imporre la nostra sulla volontà di altri constatati o supposti più deboli. Il riferimento per eccellenza, divenuto luogo comune, è in particolar modo alla teorizzazione hobbesiana del diritto alla vita e di quella lockiana dei diritti di «libertà». A questa tradizione si imparenta addirittura quella delle origini della civiltà giuridica moderna, quando il commercio crea e organizza il così detto libero mercato e, nella fattispecie la genesi del diritto di emigrare, che in questi ultimi tempi ci tocca sempre più drammaticamente, ma che venne a configurarsi storicamente come il più antico dei «diritti naturali», connesso certamente ad una prerogativa degli umani, quella di essere una specie che cammina, fin dalle prime civiltà litiche e prima del relativo sedentarismo conseguente alla scoperta dell’agricoltura e della domesticazione degli animali, ma più specificamente posto dagli inizi delle conquiste europee dopo la «scoperta» del Nuovo Mondo. Per comprendere i mutamenti e le innovazioni nel comportamento umano non è meno importante il modo in cui si configurano due rapporti essenziali, in primo luogo quello tra gli uomini e la natura, ossia il lavoro, oggi divenuto anch’esso nodo ecologico cruciale in termini di sorti del pianeta(1), e in secondo luogo quello tra gli uomini fra loro nell’ambito della società, ai quali manca ancora la consapevolezza piena che il capitalismo è giunto su scala globale ad unificare il pianeta, ma conurbandone la popolazione in un mondo in cui tale sistema diventa esso stesso autofago e autodistruttivo. In tale rapporto tra uomini sempre più di differenti provenienze anche etniche e geografiche è significativo il fatto che lo ius migrandi che ne è scaturito ebbe non a caso una configurazione pionieristica già in età moderna ad opera del teologo domenicano spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis (all’Università di Salamanca, 1539) (2) delineato come un «diritto naturale», come si diceva e, in quanto tale, universale e insieme come fondamento del nascente diritto internazionale moderno. L’autore vi sostiene che esistono una serie di diritti validi «ex iure gentium, quod vel est ius naturale vel derivatur ex iure naturali»: lo ius peregrinandi et degendi (3), lo ius commercii, lo ius communicationis, il diritto a diventare cittadini, il diritto a predicare ed annunciare il Vangelo. Se questi desideri o volontà o diritti vengono negati, possono venire difesi con la guerra; e se non sono disponibili altri mezzi, sono legittime l’occupazione delle città, la deposizione dei sovrani, la riduzione in cattività delle popolazioni. Certo, l’argomento del sottile domenicano De Vitoria è molto raffinato e molto subdolo perché, da un lato taglia corto con le argomentazioni tradizionali e si presenta come rispettoso dei diritti dei nativi, ad es. quando sottolinea il fatto che i «barbari» non si sono sottomessi per scelta volontaria, ma in seguito all’uso della forza e sostiene il principio per cui «Principes christiani, etiam auctoritate Papae, non possunt coercere barbaros a peccatis contra legem naturae nec ratione illorum eos punire». Pertanto, presentato come diritto di emigrare, esso legittima altresì la guerra di conquista delle Indie, ed è giusta anche la guerra per difendere i diritti degli Indios stessi qualora il loro governanti siano tiranni o – come è il caso dei sacrifici umani e dell’antropofagia – vigano leggi disumane. Di fatto, e in ultima analisi, in questa forma modernizzata di ipocrisia, ambigua e di apparente rispetto delle popolazioni locali, prive di armi moderne come i Venerdì di fronte ai Robinson Crusoè, esso mirava alla legittimazione della conquista spagnola del Nuovo Mondo, come si diceva, nonché ad eventuali guerre di aggressione e conquiste territoriali, allorquando all’esercizio di quel «diritto» fosse stata opposta resistenza da imputare come «illegittima»: una teoria della guerra anch’essa per «giusta» causa, se inserita in questo contesto storico e concettuale. Quel mondo del resto era già invaso, saccheggiato, ridotto in schiavitù e praticamente oggetto di genocidio. Non a caso il De Vitoria faceva seguire in quello stesso anno una Relectio de Jure Belli (1539) (4). Insomma una sorta di quello che oggi vien fatto di chiamare, mutatis mutandis, e in forma rovesciata, lo «ius soli», diritto al territorio, ovvero alla cittadinanza in forza della nascita, permanenza su quel territorio e formazione come forza lavoro a rigore non immigrata per quanto di origine etnica diversa, e la cui avversione si configura non tanto o non solo come avversione all’immigrazione ma come pura questione di razzismo. Ma questo «diritto», che da allora diventava un principio fondamentale del diritto internazionale consuetudinario, non era che la faccia ipocrita del colonialismo nascente che si sarebbe imposto ovunque con le armi da fuoco e le cannoniere. Tale ipocrisia la si misura dallo spudorato rapporto diseguale e «asimmetrico» (5) con cui esso veniva a configurarsi ed imporsi, dal momento che le popolazioni del nuovo mondo (e quelle, anche del vecchio, come il continente nero, successivamente prese di mira nella tratta degli schiavi) non erano esse ad esercitarlo ma a subirlo, mentre gli europei lo impugnavano a supporto delle loro conquiste territoriali e colonizzazioni di quei territori. La sua natura, non essendo certamente di diritto «naturale» (che è una finzione dei filosofi giusnaturalisti che lo fondavano sulla «retta ragione» in quanto in natura non esiste nessun «diritto») ma positivo, storico, di classe, la si evince dal fatto che fu proprio un filosofo capostipite dei principi della tolleranza e del liberalismo, John Locke, a collegare in un nesso unico proprietà, lavoro, sopravvivenza, fondando su di esso la giustificazione e la legittimità del capitalismo: «la stessa norma della proprietà», in forza della quale ciascuno è proprietario dei frutti del proprio lavoro» [si fa per dire!], «può sempre valere nel mondo senza pregiudicare nessuno, poiché vi è terra sufficiente, nel mondo, da bastare al doppio di abitanti». E in questa cornice, che ne costituisce anche lo sfondo storico, si collocava anche lo ius migrandi. Direbbe Paolo Villaggio che questa della proprietà dei frutti del proprio lavoro, come il film sulla corazzata Potiomkin «… è una cacata pazzesca!», ma tant’è…! Per Kant non solo sussisteva lo jus migrandi, ma anche quello di immigrare, come «terzo articolo definitivo per la pace perpetua». Dal 1948 lo ius migrandi, con la Dichiarazione Universale dei Diritti (art.13) è parte integrante del costituzionalismo moderno, organico in quasi tutte le Costituzioni. La Costituzione italiana prevede lo ius migrandi all’articolo 35. Come accade spesso nella storia che, anche per questo, non si ripete mai allo stesso modo, c’è una sorta di ironia nel rovesciamento di questa nuova ulteriore asimmetria, come la chiama Luigi Ferrajoli. Per 5 secoli infatti, i colonizzatori europei hanno sciamato come cavallette su quei territori colonizzati espropriando, saccheggiando, deportando e depredando le relative popolazioni inermi, giustificando in vari modi la conquista o l’appropriazione di terra scoperta, mentre oggi sono proprio quelle popolazioni che scappano da quei territori dove gli europei fomentano guerre, distruzione, fame, disperati che bussano alle porte dei loro ex colonizzatori affinché applichino quello ius migrandi che loro stessi escogitarono come diritto naturale per conquistare i territori dei loro padri ma che ora trasformano l’immigrazione in criminalità, e quello di emigrare da «diritto» in reato. La legislazione italiana, di fatto, dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini fino alla caccia all’emigrato «irregolare» varata da ultimo della serie dal ministro Minniti in territorio libico, è esemplare in questa metamorfosi che rende ancora più disgustoso il mito consolatorio di sé stessi e che assolve, magnifica e mistifica la sua vera natura ipocrita, ingannevole e criminale rispetto alle proprie ormai secolari malefatte, il mito degli «Italiani brava gente». Emblema di questa legislazione è infatti la criminalizzazione progressiva dell’emigrato, attraverso la creazione della figura, vero e proprio manufatto giuridico, del «clandestino», dell’ «irregolare», del «fuorilegge», spesso associato, per additarlo al ludibrio, di-sprezzo, razzismo, a quella del ladro, dell’assassino stupratore, al terrorista, un problema di ordine pubblico, di pubblica sicurezza. Questa metamorfosi dello ius migrandi (da fondamento del diritto internazionale, della libera e irenica circolazione delle mercanzie e degli esseri umani degradati a non-persone che paradossalmente vengono commerciate anch’esse sul mercato) in invasione di territorio privato, non più libero, in un mercato di merci, capitali e forza-lavoro protetto da muri, fili spinati, dazi doganali e armi a gogò. Il capitalismo sembra diventare un genere di formazione sociale che corre verso l’autodistruzione e l’autofagia, che si auto-cannibalizza, e trae sempre più profitto dai disastri, dalle guerre e persino dalle malattie, dalla fame, dalla regressione sociale e dalla morte che sempre più spesso coglie i lavoratori sul posto di lavoro. Siccome è impossibile tamponare un fenomeno come quello che esso stesso genera quotidianamente, allora lo utilizza. Non a caso e sempre più spesso nei luoghi di lavoro prevalgono i lavoratori immigrati, disposti a lavorare e spezzarsi letteralmente la schiena (vedi logistica e Amazon da un po’ di tempo a questa parte!) per salari bassissimi che spesso le aziende non versano nemmeno, e senza rispetto di nessuna norma di quella sicurezza che invece essi invocano contro l’immigrazione «irregolare». Dal 2008, anno di inizio della crisi che non passa, la legislazione italiana ha cominciato a trarre vantaggio dall’immigrazione e ha introdotto, per qualunque reato, l’aggravante della condizione di clandestino, l’aumento della pena fino a un terzo e il divieto di concedere le attenuanti generiche sulla sola base dell’assenza di precedenti penali, si allunga da 2 a 6 mesi la permanenza dei clandestini nei centri di espulsione (Cie), si introduce il lavoro gratuito col cosiddetto «baratto amministrativo» per cui gongolano le pubbliche amministrazioni parassite, che cinicamente non pagano più per i lavori socialmente utili, o speculano sul lavoro non pagato del volontariato e con tutte le forme rinnovate del lavoro schiavistico che con i flussi migratori si diffondono a scala planetaria. Sempre meno il velo sacro del diritto riesce a mascherare il carattere diabolico della legge e sarà da questa manifestazione evidente del carattere violento, oppressore dell’intoccabile autorità del Leviatano che i cuori e le menti potranno aprirsi alla trasgressione cosciente che il re è ormai nudo e va abbattuto in un processo rivoluzionario, al cui cospetto ogni legge o forza impallidisce.
NOTE:
(1) Cfr. DANTE LEPORE, Il nodo ecologico nel marxismo del XXI secolo, in https://www.sinistrainrete.info/ecologia-e-ambiente/11177-dante-lepore-il-nodo-ecologico-nel-marxismo-del-xxi-secolo.html.
(2) F. DE VITORIA, Relectio de Indis. La Questione degli Indios, testo critico di L. Pereña, ed. italiana e trad. di A. LA MACCHIA, Bari 1996.
(3) Hispani habent ius peregrinandi in illas provincias et illic degendi, sine aliquo tamen nocumento barbarorum, nec possunt ab illis prohiberi (De Indis, I, 3, I, p. 78: “prima conclusio”)
(4) F. DE VITORIA, De iure belli (1539), traduzione, introduzione e note di Carlo Galli, con testo latino a fronte, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. LX-112.
(5) Considerazioni interessanti su questa materia da parte dell’insigne giurista LUIGI FERRAJOLI, Fuori legge - Il razzismo istituzionale del governo, in Il Manifesto del 12 settembre 2009, http://www.meltingpot.org/Fuori-legge-Il-razzismo-istituzionale-del-governo.html#.Wqf1N-SotEY.
dl per PonSinMor
 
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