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Come giunsi e attraversai il ’68 
nella Torino operaia

Vedi anche la versione inglese pubblicata da InsurgentNotes 
Per me l’esperienza più significativa del movimento sociale, politico e culturale sedimentato nel processo di lotte sociali culminate nel ‘68 e ancor più nel ‘69 (l’«autunno caldo» operaio!), fu permeata essenzialmente dalla metodologia derivante dall’approccio marxista maturato dall’incontro, rivelatosi determinante, con il giornale Lotta Comunista e dalla successiva frequentazione e impegno con quel gruppo, attivo, anche se non egemone, nelle lotte operaie oltre che nelle agitazioni studentesche. Questa organizzazione del resto, anche a Torino come altrove nel triangolo industriale del Nord Italia, non era assolutamente una forza determinante nelle contestazioni studentesche che caratterizzarono quegli anni. Era piuttosto minoritaria e anzi bisogna precisare che vi si insediò relativamente più tardi rispetto ad altre città come Genova e Milano. Praticamente i miei approcci col gruppo Lotta Comunista furono, almeno per me, e soprattutto all’inizio, anche per loro, casuali, attraverso la lettura del giornale che un giovane militante di Savona diffondeva a Torino, come altri attivisti nelle città del «triangolo industriale», nelle manifestazioni studentesche e alla mensa universitaria che, sull’onda e l’eco del maggio francese, nonché di analoghi movimenti di contestazione in Europa, c’erano anche in Italia, e a Torino in particolare, già nel periodo di «occupazioni» universitarie di Palazzo Campana dell’anno precedente 1967. In quel giornale, i riferimenti a Marx e a Lenin oltre che alla storia del movimento operaio organizzato, erano espliciti e rigorosi. In un contesto in cui la triade teorica e culturale gravitava su tre fonti principali (detti in gergo “i tre MA”, Mao, Marcuse, Marx (ma aggiungendo anche Freud, Jung e Reich, per la componente “femminista”, l’ “emancipazione femminile” e di contestazione della famiglia tradizionale e dei costumi sessuali anch’essi “autoritari” e patriarcali), io e altri finimmo per concentrarci sul barbuto di Treviri.
Provenivo da una situazione locale “arretrata” rispetto a quella industriale e d’avanguardia come quella torinese, un’esperienza comunque complessa di agitazioni studentesche già precedentemente, nel liceo di Torremaggiore in provincia di Foggia contro il fascistume locale dei “figli di papà” e simpatizzavo per le rivendicazioni bracciantili, di cui la mia città natale era un centro famoso, e di cui io stesso andavo fiero. Torremaggiore era infatti, ed è ancora, nota nel mondo per aver dato i natali a Nicola (Ferdinando) Sacco, l’amico e compagno del piemontese Bartolomeo Vanzetti, i due immigrati anarchici negli USA condannati alla sedia elettrica a Boston nel Massachusetts negli anni ‘20 di feroce campagna contro i “rossi”, specie italiani, i “wops” (= adattamento linguistico di “guappi”, i “sans papier” di allora) e del quale sono io stesso lontano parente. Fu, anche nel dopoguerra, un centro bracciantile protagonista di occupazioni di terre nel corso delle quali furono uccisi dalla polizia due braccianti agricoli, Antonio Lavacca e Giuseppe Lamedica. A quel liceo facevo il pendolare da Torino (dove la mia famiglia si era trasferita e io vi passavo le vacanze scolastiche) e ogni anno ci tornavo a studiare, dopo la brutta esperienza di un anno di immigrazione, insopportabile per via del razzismo che si respirava nella città sabauda nei confronti dei meridionali e nel liceo dell’aristocrazia torinese dove mi ero malauguratamente iscritto, in quel 1961-62, anno della “invasione meridionale” e del centenario della paradossale e ironica “Unità” nazionale italiana, al culmine di una finalmente consistente ripresa delle lotte operaie, più decisa a Torino che in altre parti d’Europa.
Una Torino che, conseguentemente al suo ingrossamento per via delle ondate migratorie, era allora piuttosto incline a certe forme di razzismo, etnocentrismo e sciovinismo contro i “terroni” meridionali che man mano si addensavano nelle zone ghetto fatiscenti delle soffitte e mansarde del centro storico o nei ghetti periferici. I torinesi, e piemontesi, ci insultavano con epiteti di questo genere: «torna al tô pais» (torna al tuo paese), «tarôn», «magna saôn» (mangia sapone), «mau mau». L’anno precedente, 1960, imponenti manifestazioni operaie, a partire da Genova e poi Reggio Emilia, con parecchi morti, avevano provocato la caduta del governo Tambroni appoggiato dai fascisti del Movimento Sociale. Fatto si è che giungevamo in una Torino investita, già dal primo dopoguerra, dall’onda di piena di quei flussi migratori che raggiunsero picchi rilevanti proprio negli anni del cosiddetto «boom economico», quando anche l’espansione urbanistica trasformerà l’aspetto della città «operaia» in una «metropoli» condita dal mito del «benessere».
Nel decennio precedente, inoltre, nel dopoguerra di ricostruzione fatto ancora di stenti e povertà, nel 1951, quando l’immigrazione torinese giungeva ancora dal Nord, in particolare dal Veneto (Polesine, e Ferrara, soprattutto dopo l’alluvione del Po nel 1951), nonché dalle campagne e dalla montagna circostante, la popolazione residente a Torino era di 719.300, ma nel 1961, quando vi giunse anche la mia famiglia, raggiungeva già 1.025.822 e, dieci anni dopo, 1.167.968. In 20 anni una città che si ingrossa del 62%, in un flusso quotidiano emblematizzato dal «treno del sole», che in 23 ore percorreva lo stivale dalla Sicilia a Torino, trasportando prevalentemente pugliesi, calabresi, lucani, siciliani e sardi. Secondo il censimento del 1971, in città risiedevano 77.589 siciliani, 106.413 pugliesi, 44.723 calabresi, 35.489 campani e 22.813 lucani: Torino diventava così «una città meridionale di dimensioni paragonabili a Palermo». I numerosi cartelli sui portoni d’ingresso recavano scritte terribili e per me (terrone!) angoscianti: «Non si affitta ai meridionali», «Vietato l’ingresso ai cani, ai venditori ambulanti e ai meridionali», che saranno raccolte nell’impressionante inchiesta di Goffredo Fofi, di cui dirò in seguito.
Avevo assistito, sedicenne, direttamente ai fatti di piazza Statuto (luglio1962: assalto alla sede del sindacato UIL e scontri con la polizia con lancio di «sanpietrini», ciottoli del tipo “maggio francese” divelti dal selciato, con le camionette “scelbiane” che inseguivano gli operai e li manganellavano sul marciapiedi del tribunale situato in via Corte d’appello, di fronte al quale abitavo con la mia famiglia). Ignaro di tutto, mi sembrò di essere in guerra. Cominciò per molti il calvario delle «occupazioni» di alloggi, le “casermette” di Via Verdi, area di fronte a quella dove sarebbe poi sorto il palazzo delle facoltà umanistiche, Palazzo Nuovo, ...e poi il Villaggio Anselmetti... e poi Via Artom e poi la Falchera...e poi Le Vallette...e poi Corso Grosseto...e poi Piazza don Albera, ossia Porta Palazzo...ma siamo già agli anni ’70, esito di un decennio di flusso migratorio della prelibata merce forza-lavoro per la monocultura dell’automobile FIAT e indotto. È perché la storia, su questo terreno, cambia solo la forma e mai la sostanza, cominciò il consueto affannarsi di partiti e sette e chiese che si contendevano con promesse di favori e raccomandazioni, i votanti in vista delle periodiche elezioni politiche e amministrative.
 Al mio ritorno definitivo a Torino dalla Puglia, nella città divenuta capitale dell’automobile e della FIAT, mi ero iscritto alla facoltà di filosofia, e al tempo stesso lavoravo come aiutante al mercato di Porta Palazzo e vendendo cappellini agli stadi del toro e della Juve.
 
Poco dopo cominciarono le occupazioni di palazzo Campana e successivamente partecipai, a Palazzo Nuovo, in pieno ’68, ai corsi e seminari di sociologia del prof. Luciano Gallino, intelligente e lungimirante sociologo industriale e del lavoro, già attivo nell’azienda di Adriano Olivetti di Ivrea, nel cui Istituto di Sociologia operavano studiosi e ricercatori passati dalla esperienza di collaboratori della rivista Quaderni Rossi come Liliana Lanzardo, Vittorio Rieser, e vi si respirava la moda culturale della Scuola di Francoforte, mentre il marxismo era poco presente nel mondo accademico. Vi erano anche corsi a gruppi di studio autogestiti dagli studenti. I Quaderni Rossi, da cui si ramificherà l’operaismo di Mario Tronti e di Toni Negri e altri fino ai successivi anni ‘70, affrontavano temi e metodologie centrali nello sviluppo del movimento operaio italiano: nei sei numeri della rivista, usciti fra 1961 e 1965, l’analisi era teoricamente saldata ad una lettura di Marx (Rainero Panzieri, il suo fondatore, morto a 43 anni nel 1964, fu traduttore di Marx). I suoi collaboratori avviarono una prassi di indagine e di organizzazione, l’inchiesta operaia (molto famosa, dopo la prima di Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, 1960, quella cui accennavo sulla Immigrazione meridionale a Torino, condotta da Goffredo Fofi nel 1964) che ebbe un’importanza centrale già per tutto il ciclo di lotte approdato nel 1962, con gli scontri Piazza Statuto, per proseguire nel decennio successivo, in piena ristrutturazione del capitalismo, dopo l’autunno ’80, i “61 licenziati” alla FIAT, la marcia dei cosiddetti 40.000 capi FIAT, e i 23 mila licenziati….ancora FIAT. Quando, con alcuni compagni, uscimmo in varie città tutti da Lotta Comunista, ci riallacciammo, nel 1999, a questo metodo di lavoro politico  del nostro ’68, con il giornale Inchiesta Operaia, che consideravamo anche come metodo per organizzare la classe, e poi col Bollettino delle lotte operaie e proletarie. Ma questa è già un’altra storia.  
Tornando alla metà degli anni ’60, a Torino si era dunque nel periodo delle vacche grasse per la rendita fondiaria! Una fase ciclica che si ripete in circostanze di forte sviluppo del mercato delle merci e della manodopera. Grandi affari con quella che diventò la «penuria di abitazioni». Vidi Torino ingrossarsi come un fiume in piena. Soffitte e mansarde, che nel gergo di allora erano appunto chiamate «topaie», offerte a prezzi d’affitto apparentemente un po’ più bassi, anche perché spesso erano proprietà di enti religiosi, come l’Ordine Mauriziano, e calamitavano interi nuclei familiari stipati là dentro come piccioni, in una vita di degrado, dove ci si muoveva tra mille odori insopportabili in modo rannicchiato per non battere la testa sotto le travate dei lucernai e abbaini dei tetti, con in cuore il terrore tipico del «clandestino», minacciato dal «foglio di via». Ero solo idealmente e già non istituzionalmente socialista, quando presidente del partito socialista italiano era Lelio Basso (con simpatie per la Luxemburg) e vi erano personaggi più o meno scomodi come il luxemburghiano, lui pure, Riccardo Lombardi, il cosi detto Lenin italiano. Trovavo strano l’atteggiamento filorusso del PCI che divenne per me l’emblema dello stalinismo e del nazionalismo più opportunista per via del controllo sul sindacato. Ero già dal liceo appassionato gramsciano sul piano culturale, seguivo anche varie riviste come l’Astrolabio, e infine, quando era già finita la sua stagione, i Quaderni Rossi il cui fondatore, Rainero Panzieri, era anche lui un socialista sui generis. Ma, appena constatai il mercimonio elettoralistico in cui navigavano tutte le formazioni socialiste istituzionali, mentre esplodeva la contestazione studentesca e si agitava il movimento di occupazione delle università, mandai all’aria tutto quel genere di politica essenzialmente parlamentaristica che diventava da allora nella mia visione l’espressione variegata dell’apparato repressivo dello Stato del capitale. L’unica attività politica possibile per me divenne la militanza rivoluzionaria anti-sistema.
 Frequentavo da osservatore e senza identificarmi, per poco tempo, gruppi spontanei informali di varia impostazione e in particolare un gruppo “sperimentale”  nonviolento torinese che faceva riferimento ad Aldo Capitini, filosofo di Perugia denominato il Gandhi italiano, direttore della rivista Azione Nonviolenta che conobbi di persona, e sulla quale scrissi qualche nota in occasione dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia in occasione di quella che fu detta «la primavera di Praga» conclusasi con il rogo di Jan Palach del gennaio 1969, che rivendicava guarda caso la libertà dalla censura. Capii pian piano che la faccenda investiva e i rapporti tra Nato e Patto di Varsavia, l’equilibrio bipolare di Yalta. Ero incuriosito anche per le battaglie sociali di un altro riformatore nonviolento, Danilo Dolci, quando questi movimenti erano molto fertili di adesioni, in particolar modo intorno all’aprile 1968 quando fu assassinato il leader per i diritti civili dei neri Martin Luther King. Persino il prete cattolico don Lorenzo Milani espresse un certo disagio sociale contro le diseguaglianze, che culminò nella contestazione di ogni autorità e privilegio (i “Pierino”, i “figli di papà”!) e fondava la Scuola di Barbiana con studenti proletari, che scrissero collettivamente il libro, preso a modello e guida in tutta la fase di contestazione studentesca della selezione di classe nella scuola, la Lettera ad una professoressa (maggio 1967). Questa simpatia per la “contestazione” che si diceva “globale”, anche nel mondo cattolico, era dovuta al fatto che molti giovani, me compreso, pur essendo convintamente atei come me, non disdegnavamo simpatie per certe forme di socialità provenienti da movimenti che nascevano nell’ambito della chiesa, che in Italia, da sempre, rappresenta una componente sociale anche operaia ineludibile, ostile alle gerarchie ecclesiastiche. Don Milani aveva scritto un altro testo dirompente e significativo L’obbedienza non è più una virtù (1965), di evidente contenuto anti-autoritario antigerarchico e antifascista (opponeva alla triade concettuale fascista “credere, obbedire combattere”, l’altra: “dubitare, disobbedire, resistere”). Oltre don Milani, ci fu anche il caso di don Zeno Saltini fondatore della Comunità di Nomadelfia. Ma simpatie andavano…anche a certe forme armate di “nonviolenza” come quella del prete dell’America Latina, Camillo Torres.
Pertanto, e sempre con aperture teoriche e pratiche alla rivoluzione sociale, in un momento in cui, sia sul piano interno e vicino delle lotte operaie sia sul piano delle relazioni internazionali, l’emotività e la superficialità caratterizzavano la politica movimentista e piazzaiola e la variopinta proliferazione giornalettistica del cosiddetto estremismo dei gruppetti di sinistra, sia in versione spontaneista sul modello di gruppi come Lotta Continua, sia di teorizzazioni maoiste, anarchiche o guevariste, sentivo l’esigenza di capire cose che sentivo più grandi di me, di leggere dentro i fenomeni che si succedevano a ritmo surriscaldato, dalla guerra in Vietnam, allo scontro russo-cinese fino alle cannonate sul fiume Ussuri, alle guerriglie in America Latina, alle lotte dei paesi ex coloniali, le esplosioni delle lotte dei neri in America e il loro complesso evolversi da Luther King a Malcolm X e alle Pantere Nere, il caso Rudy Dutche e l’SdS in Germania, e soprattutto la Primavera di Praga…e tutto il resto a seguire. In quel contesto di contrasti e impostazioni diverse e contrastanti tra chi appoggiava i movimenti anticoloniali, chi si accontentava di un atteggiamento antiamericano, e chi si spingeva fino a identificare certe forme di lotta nazionaliste con il socialismo, mi colpì molto la vasta e profonda visione geopolitica dell’editoriale di Lotta Comunista sulla Linea generale del capitalismo italiano, che si distingueva per l’analisi economica e lo stile molto serio e austero, al confronto della letteratura molto pirotecnica ma vuota di quegli anni. Il mio gramscianesimo, coltivato dai tempi del liceo, si approfondiva e lavoravo intorno allo squilibrio Nord-Sud, alla questione agraria e meridionale, a comprendere il funzionamento del modo capitalistico di produrre.
L’obbiettivo dei pochi quadri di Lotta Comunista allora era di selezionare dal movimento studentesco i militanti attivisti per le future lotte operaie, anche queste “previste” nella teoria che essi chiamavano la “scienza marxista” e verificate nella forte immigrazione che a Torino aveva già prodotto le lotte di Piazza Statuto dei primi anni ’60 di cui sopra, e a cui, appena sedicenne, avevo assistito nella forma di quelle manganellate di Piazza Statuto e dintorni, di cui sopra. La frequentazione e gli incontri tra me e attivisti di Lotta Comunista e compagni più esperti, e altri compagni separatamente, si intensificarono. Erano incontri, partecipazioni comuni a iniziative anche di lotta sociale, confronti con altri raggruppamenti politici, discussioni sulle posizioni del giornale, passaggi da un compagno all’altro via via che i problemi affrontati diventavano complessi, fino a quando si giunse a combinare degli incontri con il loro leader Arrigo Cervetto, che ovviamente nessuno conosceva neppure di nome. Cervetto, fra l’altro, non era mai ostentato e speso pubblicamente come tanti leader di allora. Da persona molto schiva, non amava la visibilità, né il mito di se stesso e la spettacolarità di tanti politicanti di oggi, al punto che, oltre le centinaia e centinaia di articoli scritti, alle decine e decine di conferenze pubbliche, seminari e scuole di partito, molto utili, per la ricostruzione del suo percorso politico, potranno essere anche i ricordi di chi ha avuto la ventura, e per me il piacere, di conoscerlo e dialogare con lui che, da questo lato, riusciva a svolgere con profondità il ruolo di educatore politico, come nessuno riuscì dopo di lui. I nostri primi incontri proseguivano anche in trattoria a Genova e, guarda caso, gli argomenti cadevano sui miei interessi, su cui studiavo all’Università col sociologo Luciano Gallino, sullo sviluppo capitalistico in agricoltura, il rapporto città-campagna, lo sviluppo capitalistico nel rapporto nord-sud, «sviluppo ineguale» e non “sottosviluppo”, come invece era nella ben nota Monthly Rewiew e di un filone di studiosi che furono definiti come “sottosviluppisti”. Imparammo con Cervetto a non confondere il socialismo col capitalismo di stato, in un momento in cui le mode politiche vedevano una forte influenza dei gruppi maoisti, castristi e guevaristi. La “questione meridionale” era allora una piattaforma politica, ancora di ascendenza culturale risorgimentale, e influenzava le varie teorie allora discusse, da Gramsci (Scritti sulla questione meridionale e il resto dei Quaderni del carcere) a Rosario Romeo (Risorgimento e capitalismo) ad A. Gerschenkron sui “vantaggi” dell’ “arretratezza economica” sia per l’Italia che per la Russia. A livello accademico nessuno allora, salvo parecchi anni dopo, nominò Bordiga. Rispetto agli attivisti del movimento studentesco e della gruppetteria di sinistra, ci distinguevamo anche per via del fatto che tra le nostre mani, e dove alloggiavamo, circolavano testi di Marx ed Engels, cosa rara per tutti gli altri. Capii i limiti idealisti (gentiliani e soreliani) di Gramsci. Dovetti leggermi parecchie pagine di Marx per misurare da quelle le posizioni dei vari raggruppamenti politici soprattutto in base ad una interpretazione della dialettica e del rapporto struttura/sovrastruttura. Cervetto fu utile allora ad una generazione di militanti che si accostavano al materialismo e al marxismo, e mi stupiva per la chiarezza con cui dimostrava di conoscere argomenti e letture su cui faticavo in quel tempo. Maieuticamente, lasciava parlare, mi apriva via via gli orizzonti alle tesi di Trotskij sullo «sviluppo ineguale e combinato» (poi scoprii da solo che Trotskij aveva a sua volta preso quelle tesi da Parvus).
Mi propose di lì a poco un intervento ad un Convegno presso la casa dello Studente di Genova sullo sviluppo ineguale del capitalismo con particolare attenzione all’agricoltura e alla regione pugliese che io conoscevo bene, in chiave leninista, distinta rispetto alle tesi sottosviluppiste e sul neo-capitalismo allora in auge. Studiavamo i fenomeni dell’epoca alla luce della teoria che Cervetto definì come “imperialismo unitario”, nel quale rientrava anche l’imperialismo “straccione” italiano. Per combattere contro l’imperialismo occorreva riprendere il motto di Karl Liebknecht contro il proprio imperialismo “il nemico è in casa nostra”. Inutile dire che al Convegno presentai una relazione battuta a macchina che Cervetto stesso annotò. Credo che lo scopo di quei convegni, oltre ai contenuti, mirasse anche ad addestrare i quadri a parlare in pubblico e fu per me un’esperienza interessante, da cui capii, per es., che non dovevo leggere il testo ma parlare a braccio. Da allora i testi mi servirono solo come canovaccio. In definitiva quello che faceva la forza dei quadri reclutati in quella generazione era la cura e il rigore dedicati alla formazione teorica dei militanti, definiti nell’impostazione bolscevica leninista, “rivoluzionari di professione”. Occorre precisare che il termine “professionale” non era da intendersi né in senso sociale né burocratico, ma nel senso di un obbiettivo cui conformare la propria vita, ossia la militanza rivoluzionaria come responsabile scelta di vita e non come luogo di chiacchieroni inconcludenti. Non c’erano infatti gerarchie o capi, ma compiti da svolgere, per cui in ogni settore di lavoro organizzato c’erano non dei “capi” ma dei “responsabili”, che rispondevano cioè ad una prassi di reciprocità dialettica verso il centro, costituito dal comitato provinciale, e tutti i comitati rispondevano ad un Centro nazionale.
Cervetto soleva distinguere questa forma di centralismo (che chiamava «dialettico», anziché «democratico», come nella tradizione anche marxista) dal centralismo burocratico delle organizzazioni opportuniste e staliniste, ma anche dal centralismo formale di A. Bordiga, noto come centralismo “organico”. In realtà, studiando bene a fondo il centralismo democratico del partito bolscevico, occorre ammettere che c’erano differenze anche sostanziali tra il centralismo bolscevico e quello messo in opera da Cervetto. Quest’ultimo contemplava una disciplina più stretta, ad es. i responsabili non erano eletti ma scelti centralmente, per cooptazione, e mentre il partito bolscevico contemplava il frazionismo interno e le votazioni a maggioranza, Lotta Comunista era decisamente ostile al frazionismo e non praticava deliberazioni per votazioni. Non parlo di ciò che è diventata adesso questa organizzazione in cui da circa 20 anni non mi riconosco più. Negli anni ’70, lo studio in particolare del Capitale di Marx, della Ideologia Tedesca, dei Manoscritti del ’44  ma anche della questione militare in Marx ed Engels, fu sviluppato nei Circoli Operai. Anche io svolsi numerosi seminari, gruppi di studio, relazioni sia con operai che con studenti. Non si studiavano solo le opere di Marx ed Engels (Dialettica della Natura, Origini della Famiglia…, Antidühring) ma anche la storia del movimento operaio, la filosofia tedesca da Kant a Hegel… e persino Clausewitz!. Successivamente questa attività si degradò progressivamente in una sorta di scolastica del marxismo con “corsi di marxismo” di dubbia qualità, analoghi a quelli del catechismo ecclesiastico, presentati persino come corsi di formazione per gli insegnanti. Ma io ero già fuori….
La maniera di svilupparsi di Lotta Comunista ha seguito da allora diverse fasi proprio a partire dal ‘68, ma sostanzialmente si è svolta in due direzioni, quella nelle fabbriche e quella sul territorio, senza disdegnare all’inizio interventi nella crisi del sistema scolastico schiacciato dalla selezione di classe, e da cui si scatenò il movimento di contestazione “sessantottino”. Nelle fabbriche, soprattutto quelle a maggior concentrazione di capitale e forza-lavoro come la Fiat e che si ingrossavano anch’esse con lo sviluppo delle linee di montaggio e l’avvento dell’operaio massa, le lotte non si erano mai interrotte già dagli inizi degli anni ’60, a cui si aggiungeva il clima generale della contestazione sociale, studentesca e giovanile per cui, da questo clima generale le richieste di aumenti salariali tendevano a superare le differenze di trattamento e gli aumenti al merito tra operai e quindi ad essere non più in percentuale, ma in cifra uguale per tutti. Sempre più insistentemente si imponevano richieste riguardanti la qualità e la sicurezza sul lavoro, mediante la riduzione del tempo di esposizione al rischio e dunque anche con la riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore settimanali a parità di salario (lo slogan prevalente era “più salario / meno orario”) e pretendendo la rivendicazione di aumento del tempo libero e parallelamente si tentò di porre un limite alle ore di straordinario contrattandone le deroghe. Esplose anche il problema  della condizione della figura molto numerosa del “lavoratore/studente” e dello “studente/lavoratore”, con richieste di più facile e meno costoso accesso a studi ed esami (nostri slogan rivolti ai figli di operai: “scuola gratis ai figli di operai”, “libri e trasporti gratis ai figli di operai”…). 
 
Esplodeva il ruolo nuovo dell’assemblea operaia di fabbrica sui luoghi di lavoro, la cui partecipazione doveva essere retribuita. Via via venivano scalzate le vecchie rappresentanze sindacali dell’epoca della classe operaia di mestiere (e dell’aristocrazia operaia) e si affermava la nuova democrazia dei delegati e dei consigli di fabbrica. Al contratto nazionale di categoria seguiva la negoziazione aziendale per trattare specifiche situazioni locali. L’attività dei militanti non era solo di diffusione del giornale e volantini all’esterno dei luoghi di lavoro, ma dove c’era qualche militante o simpatizzante si cercava di sviluppare dei “nuclei leninisti di fabbrica” con vari giornali di carattere rivendicativo-agitatorio e insieme di propaganda (es. Il Filo Rosso dell’ENEL, ecc.), ma vi si organizzava anche la diffusione del giornale nazionale. Sul territorio si sviluppavano i Circoli Operai, nei vari quartieri della città. Naturalmente i Circoli Operai, più numerosi erano e più funzioni articolavano. Nel prosieguo del tempo e col riflusso delle lotte operaie, di fatto, i circoli, più numerosi erano e più gente movimentavano e più alti risultati ottenevano, pertanto si finì per impostare la “ritirata strategica”, adottando il criterio di “concentrare” le forze, chiudendo i circoli piccoli e medi e aprendo quelli grandi che diventavano centri-zona, pronti ad aprire altri circoli figli a seconda dell’occorrenza, man mano che si formavano militanti in grado di reggere responsabilità e ruoli loro affidati. Già a partire dalla metà degli anni ’80 si cominciò a espandere circoli operai anche in altri paesi europei, col compito essenzialmente di diffondere il marxismo e le pubblicazioni nelle varie lingue europee. Intanto anche l’attività editoriale si articolava e sviluppava creando la collana Panta Rei ed altre iniziative editoriali. La grande operazione editoriale dell’esperienza di Lotta comunista resta il salvataggio dell’edizione italiana della traduzione delle Opere Complete di Marx ed Engels (e di Lenin) già intrapresa dagli Editori Riuniti e lasciata interrotta. Oggi infatti, a 200 anni dalla nascita di Marx, le Edizioni Lotta Comunista pubblicano in 50 volumi, undici dei quali in parte inediti, l’opera omnia di Marx ed Engels, colmando un vuoto lasciato dagli Editori riuniti che ne avevano interrotto la pubblicazione. Lo stesso giornale La Stampa, quotidiano torinese a tiratura nazionale della Fiat, negli anni ’60 chiamato dagli operai “La busjarda” (la bugiarda) e “serva dei padroni”, recensisce oggi questa iniziativa della pubblicazione delle opere di Marx ed Engels fornendo un giudizio lusinghiero di questa organizzazione: «una casa editrice lontana dai clamori mediatici e animata, oltreché da passione monotematica, anche da una acribia filologica inattesa in un collettivo di rivoluzionari. L’editrice prende il nome da un movimento restato l’unico superstite dei tanti gruppi della sinistra extraparlamentare degli Anni Sessanta e da allora attestato su una linea di fedeltà a Marx e Lenin, di ostilità allo stalinismo e con nessuna simpatia per il castrismo e il maoismo».
 
Dante Lepore

 
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